giovedì 26 gennaio 2012

Amnesia

Impiego un po' di tempo a capire dove mi trovo, costretto come sono a farmi largo (strisciare) tra cumuli di oggetti, orribili soprammobili, andati in frantumi sul pavimento umido. Non mi ubriaco da mesi, non fumo marijuana da anni, quindi proprio non capisco come sia finito in questo posto, per giunta smemorato. Eppure il luogo è familiare, sufficientemente noto per ricordarmi qualcosa, ma cosa?
Mi alzo, ho migliaia di pezzettini di ceramica addosso, cerco di toglierli con scarso successo, allora mi spoglio. Adesso sono in mutande e scarpe da ginnastica, in un luogo ancora ignoto. Mi guardo intorno nervosamente, cercando in un angolo remoto della memoria un indizio che accenda la fatidica lampadina, affinché possa urlare il fatidico “Eureka!”. Non che sia appropriata questa esclamazione, in fondo non inventerei niente, mi limiterei a ricordare; e se gli inventori pescassero dalla loro memoria i colpi di genio? Se conoscessero già le risposte che cercano, tutto sarebbe più facile ed intrigante: potremmo presupporre l'esistenza di altri mondi, di scorribande nel tempo e chissà cos'altro.
Questo divagare non mi aiuterà a capire dove sono. Un oggetto attira la mia attenzione, fa capolino da una scatola di cartone che ha visto giorni migliori. Mi avvicino e lo afferro, è un crocifisso. Cazzo, questo mi manda del tutto fuori strada, non sono un tipo religioso né, tanto meno, conservo suppellettili religiose. Eppure il posto continua ad essermi familiare. Mi sembra di riconoscere perfino la puzza di chiuso. Decido di aprire la finestra, se non sono del tutto fuori strada dovrei essere al quinto piano.
Apro, sono al quinto piano. Allora ho capito finalmente! Il grido “Eureka!” (ho deciso di urlarlo anche se non del tutto appropriato) si strozza in gola: pensavo di aver capito, e invece niente. Eppure anche il panorama, orribile, non mi è sconosciuto. Resto affacciato alla finestra, accendo una sigaretta che prendo dalla tasca del pantalone buttato a terra, faccio due tiri e la spengo. E' una giornata fredda, il cielo color acciaio scolorito (chiaro no?) mi trasmette un senso di claustrofobia. Chiudo la finestra e riprendo a gironzolare nella stanza; possibile che mi senta oppresso stando all'aria aperta e stia benissimo chiuso in questo buco? A quanto pare si.
C'è un piccolo armadio vicino la finestra, finora lo avevo ignorato ma adesso sono costretto ad aprirlo. Sforzo inutile, dentro non c'è niente, se non una pallina di naftalina. Chiudo gli occhi e per un attimo vedo un gran numero di vestiti stipati nell'armadio. Un ricordo evidentemente. Mi siedo su una vecchia sedia, di quelle in legno e vimini da osteria, e raccatto dallo scatolone di prima una rivista. Porta la data di dieci anni fa, la sfoglio distrattamente e mi rendo conto di conoscere a memoria ogni articolo, ogni foto, ogni didascalia. Ricordo addirittura, senza la minima sbavatura, tutti i particolari del trafiletto in ultima pagina, quello in cui ci sono scritti i collaboratori, il luogo dove la rivista è stata stampata e i dettagli amministrativi riguardo la casa editrice. Mi spavento, di solito ho una pessima memoria. Frugo nello scatolone, e scopro di sapere in anticipo cosa troverò: “2 compact disc”...eccoli, “busta di tabacco secco”... più secco di quanto ricordassi, ma c'è... “una matita, una agendina da tasca e un libro”... c'è tutto, peccato che nell'agendina non ci sia scritto nulla che possa aiutarmi. Leggo qualche passo del libro, convinto di saperlo a memoria, invece niente, nemmeno il titolo mi dice qualcosa.
Forse è un sogno. Sarebbe una soluzione banale, però non mi dispiacerebbe, comincio ad essere nervoso. Siccome ho sempre pensato che il metodo del pizzicotto per scoprire se sei sveglio è una enorme stronzata, prendo il muro a testate; testate lievi, ma alla quinta il dolore sottile mi convince: non sto sognando. Torno a sedermi, sono ancora rintronato, sento ancora dei colpi rimbombarmi nel cervello. Sempre più forti... Devo essermi procurato un danno grave, il che significa che il vuoto di memoria non è il peggiore dei miei problemi, devo essere del tutto deficiente. I colpi aumentano di frequenza ed intensità, mi stringo la testa tra le mani, il suono ossessivo si attenua ma non svanisce.
Passa un po' prima che mi accorga che i colpi non sono nella mia testa, ma provengono dalle mie spalle. Mi volto, c'è una porta. Chissà da quanto tempo è lì! Non l'avevo proprio notata. Dovrei aprire, ma sono in mutande e scarpe da ginnastica e ho il dubbio di essermi introdotto furtivamente in casa d'altri. Deve essere andata così, tra qualche minuto sarò in arresto; sono una persona onesta, come posso essermi cacciato in questa situazione? Beh, se devo andare in galera lo farò in mutande. Raccolgo i pantaloni e la maglia da terra, prima di andare ad aprire la porta ho una reminiscenza che devo assolutamente controllare: a pagina 52 della rivista qualcuno ha disegnato i baffi ad una modella e sotto la fotografia ha scritto: se diventi così, io divento gay! C'è anche questo... Mi decido ad aprire, ma anche se non lo facessi la porta non reggerebbe a lungo, i colpi sono sempre più potenti.
Sono estremamente stupito nel vedere mio figlio. Gli chiedo cosa ci faccia in quel posto, e soprattutto in che posto ci troviamo. Sorride amaro, mi prende sottobraccio e dopo avermi aiutato a rivestirmi tira fuori il cellulare, indicando la data. Finalmente capisco, piango una lacrima. Mentre cammino con il ragazzo realizzo che qualcuno ha fatto sparire la corda dalla stanza.
Poco male, per un anno sono a posto.

sabato 21 gennaio 2012

Il latte in tempo di guerra

Iole non usciva di casa da quattro mesi: aveva dato alla luce la sua secondogenita e il recupero era stato più lento del previsto. A causa della guerra, del disordine in cui si viveva in quei primi mesi del '44, non sempre aveva potuto godere dell'assistenza necessaria e di rado aveva potuto consumare un pasto degno di questo nome. Inoltre aveva anche dovuto prendersi cura della figlia maggiore, di soli due anni, che richiedeva costanti attenzioni.
Il marito (Mario) passava le giornate fuori a lavorare, per cercare di guadagnare il necessario per tirare avanti; il problema era che si lavorava poco e quel che si guadagnava spesso non era sufficiente a comprare generi di prima necessità, spesso introvabili nei normali canali e disponibili soltanto, a prezzi stellari, alla borsa nera.
C'era una donna che di tanto in tanto aiutava Iole: le dava una mano in casa, faceva le poche commissioni, seguendo le regole della solidarietà che la guerra enfatizza o distrugge, senza mezze misure. Quel giorno Iole decise di andare da sola a comprare il latte: da qualche giorno si sentiva discretamente bene, avvertiva la necessità di un po' d'aria fresca e, soprattutto, voleva vedere con i suoi occhi cosa accadeva per le strade di Roma. Ne aveva sentite tante e stentava a credere che la situazione potesse essere tanto grave; restare isolata per tutto quel tempo l'aveva condotta in una dimensione in cui la guerra e la disperazione arrivavano attutite.
Quando mise finalmente piede fuori di casa, il primo impatto con la realtà non fu scioccante come temeva: troppa la gioia di rivedere la sua fontana di Trevi e l'andirivieni frenetico delle persone impegnate a sopravvivere. Sentire sulla pelle il primo sole primaverile, tiepido e rassicurante, la convinse che presto tutto si sarebbe aggiustato, ammesso che davvero le cose andassero male come le avevano raccontato. Passò accanto alla fontana, immerse una mano nell'acqua come in un rituale salvifico e si avviò verso il posto in cui le avevano detto fosse ancora possibile trovare il latte.
Le strade del centro di Roma erano caotiche come al solito, ma si percepiva una tensione insolita, anche se tra i volti preoccupati di gran parte della gente spuntava sempre qualche sorrisone ed esplodeva una fragorosa risata. La capacità di non perdere mai il buonumore e la speranza era ciò che Iole amava di più dei suoi concittadini. Così quando qualcuno cominciò a riconoscerla e a salutarla, dispensò il suo sorriso a tutti, lei che sapeva essere molto dura. Ricordava ancora, e lo ricordava tutto il quartiere, quando cinque anni prima un ragazzo, un giovanotto come diceva lei, aveva avuto l'ardire di fermarla per strada per informarla di essere stata eletta la più bella del Tritone. Il sonoro ceffone che aveva rifilato al malcapitato risuonò per le strade intorno, e tutti i residenti giurarono di averlo sentito. Poi era tornata a casa, si era specchiata ed aveva deciso che non era poi così bella.
-Buongiorno sòra Iole, per fortuna ve se rivede!-
La salutavano tutti così e lei rispondeva sempre allo stesso modo, anche se non sempre riteneva di conoscere quelli che le rivolgevano la parola.
-Grazie, grazie me fa piacere da rivedevve!-
Fece una lunga fila per riuscire a comprare il latte, e fu estremamente fortunata, poiché dopo il suo acquisto erano rimaste soltanto due bottiglie, a fronte di una fila di alcune decine di persone.
Tornò verso casa contenta, quella giornata era la più bella degli ultimi mesi. Anche la guerra sembrava tacere in rispetto alla sua spensieratezza. Mentre faceva ritorno a casa, passando per via delle Quattro Fontane, qualcosa le cadde davanti: una maglietta piccola e lacera che raccolse immediatamente da terra. Alzò lo sguardo al cielo, e dalla finestra di una casa che faceva angolo con via Rasella la voce squillante di una donna le chiese scusa:
-Oddio signò me scusi tanto, stavo a stenne li panni e m'è caduta la maglietta de mi fijo! Scenno a prennella!-
Iole sorrise e prima che potesse rispondere sentì un gran botto, un'esplosione potentissima che la scaraventò al suolo. Impiegò qualche minuto per realizzare di non essersi fatta male, grazie al muro della casa ad angolo che le aveva offerto il riparo necessario; qualche metro più avanti e l'esplosione l'avrebbe investita in pieno. Tutto intorno era il caos: gente che urlava dal dolore delle ferite riportate, altri semplicemente spaventati che scappavano senza sapere bene dove. Iole si alzò e si rese conto di non avere più la bottiglia del latte in mano. Si voltò e la vide in frantumi a qualche metro da lei. Le veniva da piangere ma era una donna forte e doveva dimostrarlo. Poi si ricordò della signora alla finestra, e lo sguardo si mosse verso di lei. Prima che potesse guardare in alto qualcosa, proprio sotto la finestra, attirò la sua attenzione, qualcosa di strano, che non aveva mai visto prima. Cercò di mettere a fuoco, e quando capì si sentì mancare. Riuscì a resistere, a tenersi in piedi, ma non a staccare lo sguardo dalla testa della donna che giaceva per terra, tranciata di netto dal corpo, rimasto penzoloni alla finestra.
Iole era una donna forte, ma pianse, pianse mentre scappava verso casa. Piangeva quando alcuni uomini che correvano in senso opposto al suo la urtarono e in quel momento non capì cosa volesse dire quello che urlavano: -se trovate li corpi dei civili pigliateli e portateli via, nun se deve sapè che so morti!- Lo capì soltanto molti anni dopo, quando nella lista delle vittime di quella donna non si faceva menzione.
Tornò a casa e smise di piangere nel momento stesso in cui varcò la soglia: le figlie erano piccole ma non dovevano comunque vedere la madre piangere. La donna che era rimasta con loro era visibilmente spaventata, ma da lì non aveva avuto la reale percezione di quanto accaduto e per sua fortuna non aveva visto quello che aveva visto Iole, che smise di piangere allora e non pianse mai più, fino alla morte del marito cinquanta anni dopo.


sabato 7 gennaio 2012

L'orgasmo perfetto

La vita da single è strana quando hai tra i trenta e i quaranta anni: passi le tue giornate tra il lavoro e la ricerca di una donna, poi il fine settimana qualcuno organizza una festicciola e tra un bicchiere e l'altro cerchi di portarti a letto la bella sconosciuta di turno, sapendo benissimo che quello che ti rimarrà alla fine sarà soltanto un gran vuoto, molto più profondo di quello in cui sprofondi quotidianamente. L'ultima cosa di cui hai bisogno è accelerare la caduta, eppure non rinunci ad un bel corpo, alle provocazioni naturali di una bella donna.
Una sera come tante, a casa di uno dei tanti conoscenti, il rito del bicchiere sempre pieno e delle chiacchiere inutili stava raggiungendo il culmine; seduto su un divano Ikea, scambiavo qualche parola con la donna più provocante che avessi mai conosciuto: i lunghi capelli neri corvino, perfettamente lisci, le accarezzavano il corpo fino al fondoschiena, gli occhi di un intenso verde celavano le sue capacità amatorie dietro uno sguardo impegnativo, impossibile da sostenere senza cadere nella tentazione di accarezzare il corpo che faticava a rimanere dentro il vestitino che poco lasciava all'immaginazione, scatenando il famoso “vedo non vedo” che tanta eccitazione è capace di suscitare in noi maschietti.
Le gambe costantemente accavallate esercitavano su di me una forza di attrazione che nell'universo si trova raramente. Guardarle tutte era un lungo viaggio per gli occhi, eppure non c'era mai stanchezza nel mio sguardo, soltanto avidità e passione. In questi casi trovare argomenti di conversazione che distraggano dal costante pensiero del sesso è impresa ardua, eppure l'ormai consolidata abitudine di nascondere l'attrazione con parole di circostanza mi consentiva di chiacchierare con calma mentre il mio cervello montava un film vietatissimo ai minori.
Al quarto o quinto bicchiere avevo ormai percorso i trenta centimetri scarsi che ci separavano, ed ero seduto al suo fianco, incollato con la gamba alla sua, impegnato ad accarezzare la sua anca con la mia. Questo è sempre il momento in cui hai il primo orgasmo mentale, un orgasmo talmente devastante che devi infilare una mano in tasca per controllare che non sia successo l'irreparabile; se il tuo corpo ha ceduto, devi metterti l'anima in pace, buttarti il bicchiere di vino rosso addosso, proprio in zona genitali, e dare l'addio all'ennesimo paio di pantaloni. Corri in bagno, lavi via i residui del peccato e torni dalla tua preda, maledicendo la tua distrazione o l'età che non ti consente di reggere un paio di bicchieri senza perdere le capacità motorie.
Quella volta, nonostante l'avvenenza della donna, il mio orgasmo fu soltanto mentale: lo sentii scendere dalla testa, attraversare il corpo e devastare con una esplosione la gamba che era ormai del tutto incollata alla sua. Dovette sentirlo anche lei, perché il suo sguardo sembrava dire: “ce ne hai messo di tempo a cedere...”
Ci alzammo per andare a riempire il bicchiere, poi passammo sul balcone. Mentre, rigorosamente fianco a fianco, osservavamo la città che pigra cominciava ad andare a dormire, un'altra vampata mi colse: con la coda dell'occhio ammiravo la curva del suo sedere, che avevo occasione di vedere per la prima volta. Buttai giù il vino rapidamente, quasi a soffocare l'istinto di saltarle addosso, ma non riuscii a distogliere lo sguardo da quel magnifico sedere, che si stagliava alto ed orgoglioso senza l'ausilio dei tacchi. Invidiai le punte dei suoi capelli, che lo accarezzavano mosse dalla lieve brezza di inizio estate. Ci vuol fortuna anche a nascere doppia punta!
Mi avvicinai fingendo interesse per ciò che stava dicendo, in realtà non potevo più reprimere l'istinto di appiccicare il mio corpo al suo, il contatto di bacino non era più sufficiente. Lei posò una mano sulla mia spalla, ebbi un brevissimo sussulto ed immediatamente risposi cingendole la vita, qualche centimetro appena sopra quel capolavoro di sedere. Sostenere il suo sguardo adesso era ancor più difficile, così pensai bene di distrarmi con la scollatura leggera attraverso la quale il suo seno cercava faticosamente la libertà. La strinsi tra le braccia e lei si lasciò andare definitivamente contro di me, appoggiando finalmente sul mio corpo tutta la sua statuaria bellezza. Ci baciammo rapidamente, per non essere visti dagli altri forse; se avessimo prestato maggior attenzione per quanto ci accadeva intorno, avremmo notato che ormai le situazioni erano due: c'era chi dormiva ubriaco e chi si dilettava come noi. Il problema è che quando sei perso in uno sguardo innocentemente malizioso come quello che mi aveva rapito e senti addosso un corpo che sta per esplodere in un boato di lussuria, tutto il resto sparisce.
Nel giro di pochi minuti eravamo in una camera da letto a lanciare in aria vestiti. Adagiata sul letto, le curve del suo corpo erano perfette, epiche e maestose come una sinfonia che ancora nessuno ha scritto. La baciai e la accarezzai ovunque, ripetutamente, incapace di saziare la mia lussuria, eppure non ancora pronto al sesso, quasi che temessi di violare tanta bellezza. Nonostante il desiderio crescesse fino a fare male, e sentissi tutti i miei muscoli tirare come se fossero straziati da una macchina di tortura medievale, non riuscivo ad averla. Lei mi sorrideva come se la cosa non avesse importanza, ed anche per me sembrava non averne. Ero forse innamorato di una donna conosciuta da poco? Impossibile. La lasciai un attimo da sola nel letto, andai alla finestra e vidi soltanto un gran buio, nemmeno una luce fioca a rischiarare la notte.
Tornai a letto, ed appena vidi il suo corpo illuminare la stanza buia, ebbi un'erezione istantanea. Mi gettai su di lei, le strinsi le cosce, le baciai il seno e scivolai dentro di lei. Il momento di maggior lussuria della mia vita si era appena compiuta, cercai il suo sguardo e raggelai: il suo volto stupendo era adesso un teschio sorridente, la mano ossuta accarezzava i capelli ancora perfetti.
Nonostante la paura, o meglio il terrore, avesse ormai obnubilato la mia mente, ebbi un potentissimo orgasmo; immediatamente dopo, mi sentii rilassato come mai prima di allora; lei mi fissò soddisfatta, come se avesse avuto un orgasmo simile. Mi strinse forte e mi sussurrò all'orecchio: “Capisci adesso? Siamo morti, da molto molto tempo...”
Prima che potessi risponderle la porta si aprì e i nostri amici entrarono, anch'essi scheletri eleganti ed allegri.
Troppo alcol, pensai. Cercai di convincermi che la causa di tutto quello fosse il vino, poi sentii la bocca di lei scivolare su di me, sempre più in basso. Doveva essere la prova che l'alcol mi avesse tirato un brutto scherzo. La guardai, ansioso di fissarla negli occhi mentre si prendeva cura di me. Fu allora che vidi che tra le mie gambe non c'era più niente, escluso quel teschio che mi guardava con desiderio. Era la prova definitiva, eppure non avevo più paura.

venerdì 30 settembre 2011

Ne ho ucciso un altro

Anche oggi ho rimediato un pasto. Non male. Adesso devo uccidere il tizio che me lo ha offerto, non posso sopportare l'idea che vada in giro a raccontare quanto è accaduto, farsi ammirare per quello che ha fatto e gettare merda sul sottoscritto, ricorrendo a tutta la classica sfilza di commenti pseudo solidali.
Già il sorrisino soddisfatto con cui mi guarda dopo che ho buttato giù l'ultimo boccone è tutto un programma; sembra aver salvato il mondo con i tre euro scarsi spesi per offrirmi il lauto pasto. Non credo che la mia espressione dimostri gratitudine né particolare rispetto per questo tizio che crede di essere diventato una specie di divinità a cui sacrificherò il resto della mia esistenza. Fanno tutti così quelli che ti offrono qualcosa, pensano che la tua vita diventi di loro proprietà con qualche spicciolo. E' un buon investimento, credono loro: tornano a casa e raccontano alla moglie che hanno comprato uno schiavo con gli avanzi del pasto quotidiano. Poi si siedono sul divano di fronte al televisore ultimo modello e, abbracciati alla consorte, sognano di scopare con la soubrette di turno che mostra le sue grazie senza problemi. Purtroppo i loro spiccioli non bastano per quelle, proprio no.
Esco dall'angusto locale in cui ho mangiato senza salutare il mio benefattore, cosciente che mi seguirà.
Mi segue. Dice qualcosa che non sento, ma non sarà niente di diverso dal classico “bel modo di ringraziare” o stronzate del genere. Accelero il passo, lui farà altrettanto.
Accelera il passo. E' una scena strana credo, un tizio elegante che pedina un morto di fame coperto di stracci, di solito succede il contrario. Punto deciso al vicolo in cui vivo, la strada più sporca e puzzolente della città. Mi volterò appena girato l'angolo, lui esiterà e poi continuerà a seguirmi.
Esita un attimo e mi segue. Apro la porticina in legno marcio nascosta dai bidoni dell'immondizia, il tipo elegante ancora mi segue. Scendo le scale che portano al seminterrato, lui si arresterà alla porticina.
Si ferma. Allora gli urlo di scendere, che voglio sdebitarmi con lui. Balbetta qualcosa, dovrebbe essere il classico “non si preoccupi, non serve”. E' il momento in cui il novello dio se la fa sotto di fronte al proprio suddito. Ha paura che lo derubi o lo ammazzi, o tutte e due le cose. Scenderà un paio di gradini, non di più.
Scende due gradini, si ferma di nuovo. Questo è il momento in cui la curiosità frega il dio tornato uomo. Ma è anche l'attimo in cui la storia dell'umanità trova la sintesi perfetta: l'evoluzione è figlia della curiosità che sconfigge la paura. E' così dal giorno del big bang, o da quello della Creazione. Da quando è stata fatta la frittata insomma. Torno indietro, lo prego di seguirmi. Lui accetterà.
Accetta. Entriamo nel mio appartamento, un ex deposito di circa 300 metri quadri, un'unica enorme stanza con parquet a terra, preziosi tappeti orientali, qualche decina di poltrone sparse a casaccio, un tavolo lungo dodici metri, una cucina enorme incastonata nell'angolo lontano e tutta una serie di altri oggetti che non starò ad elencare. Uno scherzo che mi è costato circa un milione di euro. Lui adesso rimarrà in silenzio per qualche secondo, poi balbetterà e infine se ne andrà furioso.
Il silenzio dura più del previsto, accompagnato da uno sguardo inebetito che è la fine del mondo. Balbetta, grugnisce (questo non me lo aspettavo) e imbestialito va via. Chiudo la porta blindata, fatta di mogano o cose del genere, lascio la porticina in cima alle scale aperta. Prendo una birra dal frigo e mi siedo in poltrona a leggere “Le Monde”; non so una parola di francese, ma sentirmi mentre tento vanamente di pronunciare quelle parole effemminate mi diverte molto.
Ne ho ucciso un altro.

venerdì 23 settembre 2011

La sconosciuta

-Se fossi un poliziotto ti chiederei di aprire la valigia, dal peso si direbbe che tu ci abbia infilato un cadavere a pezzi!-
La ragazza rise di gusto a quella vecchia battuta; avevano affrontato un lungo viaggio insieme, ma soltanto al momento di scendere Gastone aveva trovato il coraggio di rivolgerle la parola con la scusa di aiutarla con il bagaglio: lei era una di quelle femmine talmente belle da intimorire anche il più spietato uomo cacciatore, figurarsi Gastone che cacciatore non lo era mai stato.
-Visto che per mia fortuna (rise ancora) non hai deciso di fare il poliziotto, di cosa ti occupi?-
Scesero dal treno lentamente, il peso della valigia era davvero eccessivo per Gastone, che tuttavia cercava di non darlo a vedere. Completamente rosso in viso, posò la valigia a terra e chiese alla ragazza se dovesse prendere la metropolitana o se ci fosse qualcuno ad aspettarla.
-Non mi attende nessuno, vorrei prendere un taxi.-
Questo significava almeno altri settecento metri con la valigia della ragazza: nell'era del trolley, aveva incontrato l'unica donna che viaggiava con la valigia senza rotelle. Il pensiero della fatica che avrebbe fatto era mitigato dalla gioia di passare ancora qualche minuto con lei, anche se sapeva che difficilmente avrebbe avuto il coraggio di domandarle quali fossero i suoi piani per la serata ed eventualmente entrare a farne parte.
Si incamminarono verso il parcheggio dei taxi.
-Scrivo...-
-Oh che bello, sei uno scrittore!-
Alzò la mano per placare l'entusiasmo della ragazza.
-Lasciami finire... Scrivo manifesti funebri.- Abbassò lo sguardo mentre sentiva le orecchie avvampare.
Lei non riuscì a nascondere l'imbarazzo. Gastone ebbe un moto di riscossa e riprese a parlare.
-Beh in fondo molti grandi scrittori trattano di morte no, il mio è solo un punto di vista differente! (rise) In realtà scrivo molto nel tempo libero, ma a quanto pare non ho abbastanza talento per viverci, almeno stando alle opinioni delle case editrici; per cui lavoro nell'agenzia funebre di mio zio. All'inizio mi spediva ai funerali ma non riuscivo a rimanere serio: ridevo o piangevo. Non ti dico come guardano male un becchino che se la ride al funerale di uno sconosciuto! Così sono riuscito ad ottenere il mio ruolo attuale, definiamolo editor di annunci mortuari, cosa che non richiede talento ma che mi evita un sacco di figuracce, a patto ovviamente di parlarne il meno possibile. Per tentare di risollevare le mie sorti, tento sempre di inserire un elemento originale nei manifesti, per alleviare la banalità della morte.-
Lei sorrise di nuovo.
-Potresti farmi un piccolo esempio? Proprio non riesco ad immaginare un manifesto funebre originale!-
-Vedi non riesco ad improvvisare, devo sapere qualcosa del morto per poter scrivere qualcosa di efficace.-
-Beh ma ne ricorderai uno di quelli che hai scritto...-
-A dire il vero no, sono frutto dell'ispirazione, se possiamo dire così; una volta scritti li consegno a mio zio e butto la brutta copia, dopodiché cerco di dimenticarli, nonostante tutto la banalità della morte ha ancora un certo influsso su di me. Ma se resti in città per un po' fai attenzione ai manifesti in giro, i miei li riconoscerai di sicuro!-
Erano arrivati alla stazione dei taxi; esausto, Gastone si preparava al classico commiato: grazie per la valigia, è stato un piacere ecc. La banalità della vita.
-Magari potresti farmi vedere qualche tuo vecchio manifesto in giro stasera, se non hai impegni, una moglie o una fidanzata...-
Impiegò qualche secondo a realizzare che quello era un invito ad uscire, qualche altro per essere assolutamente certo di non aver dimenticato mogli o fidanzate, ancora qualcuno per riprendere fiato.
-Sono libero stasera (balbettò), dove passo a prenderti?-
Lei gli diede il biglietto dell'hotel dove alloggiava, mentre fermava delicatamente un taxi alzando il braccio, movimento che mise in evidenza il seno scultoreo. Il tassista faticò non poco a caricare la valigia mentre lei saliva in auto. Gastone la osservò sedersi sul sedile posteriore, si imbambolò di fronte allo spettacolo della gonna che, ritirandosi lentamente, lasciava scoperte le cosce snelle ed asciutte che sembravano implorare di essere toccate. Lei lo salutò con un cenno appena percettibile della mano, mentre lui si sbracciava. Il taxi aveva percorso qualche metro quando Gastone realizzò di non aver concordato un orario; corse verso l'auto, fece cenno alla donna di abbassare il finestrino e le disse che sarebbe passato alle venti e trenta.
-Va benissimo (sussurrò).- Un lieve sorriso riuscì nell'impresa di renderla ancora più bella. E nella profondità dei suoi occhi si sarebbe perso anche l'infinito dell'universo.
Mentre si allontanava si chiese cosa avrebbe potuto scrivere Gastone se gli avesse raccontato la storia del suo ex ragazzo, che riposava a pezzi nella valigia.